Virgilio legge l'Eneide ad Augusto, Livia e Ottavia - Jean-Auguste-Dominique Ingres

"ET MENTEM MORTALIA TANGUNT..."

è parte del verso 462 presente nel primo libro dell'Eneide di Virgilio, che recita

 

«Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt»:

 

la storia è lacrime, e l'umano soffrire commuove la mente».

Sono le parole commosse di Enea in fuga da Troia in fiamme. Enea, dopo una terribile tempesta, è naufragato sulle coste cartaginesi, terra dove l’esule troiano spera di trovare asilo. Con l’amico Acate sta per incontrare Didone e, nell’attesa, attraversa il tempio di Giunone. Vedendo sulle pareti, affreschi che raffigurano la drammatica fine della sua città, Troia, non sa trattenere le lacrime. E’ un’esperienza potente e insieme dolorosa che ci costringe attraverso Virgilio a rivivere le tristi vicende di Enea e dei troiani scampati alla distruzione della propria città e ora dispersi sulle coste di Cartagine. Sono parole che ci inducono a rileggere le vicende di Enea in parallelo ai drammatici eventi del Mediterraneo contemporaneo, anch’esso continuamente attraversato da naufraghi in fuga; laddove però Enea incontrava la benevolenza e l’apertura di Didone, pronta ad accogliere lui e i troiani, oggi chi fugge fame, distruzione e guerre incontra un’Europa sempre più chiusa e sospettosa. Ma soprattutto le «lacrime delle cose» di cui parla Virgilio non sembrano più in grado di “commuoverci”. Lo splendido verso del poeta latino (Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt) ha una duplice valenza: da un lato, Virgilio sembra dire che le «cose» (i fatti, gli eventi del naufragio troiano) sanno suscitare le lacrime in chi ascolta (o legge); dall’altro, sono le cose stesse a essere bagnate dalle lacrime (le lacrime di chi ha sofferto il naufragio). Oggi, i nuovi naufragi continuano a essere drammaticamente bagnati di lacrime; ma sembrano suscitarne sempre meno. La contemporaneità si è fatta arida o, come direbbe Virgilio, «tanto barbara»? Il senso dell’umanità degli antichi era forse più profondo del nostro? La cultura di oggi ha forse dimenticato il concetto di humanitas. E da questa premessa siamo indotti in una riflessione su ciò che noi definiamo “diritti umani”, in particolare ponendo a confronto la Dichiarazione dei diritti umani del 1948 con alcuni classici della cultura antica: il già citato Virgilio ma - tra gli altri - Cicerone, Seneca, Terenzio e la cultura cristiana.

Per gli antichi non esisteva qualcosa come i “diritti dell’uomo”; quando si ponevano i problemi che oggi leghiamo ai diritti universali, greci e romani ma parlavano piuttosto di “obbligazioni” ovvero di “doveri degli uomini”. Nella cultura antica non esistevano in senso stretto diritti del singolo individuo, quanto piuttosto doveri che gli uomini avevano nei confronti di altri uomini che si trovavano in situazione di difficoltà.Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Sono un uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo) scrive Terenzio. Proprio perché siamo uniti da una comune umanità, proprio perché in quanto umani dobbiamo occuparci di tutto ciò che è umano, è giusto «eccedere nella comunicazione»; è giusto e doveroso interessarsi perché è dalla conoscenza che inizia il percorso del prendersi cura dell’altro.

Il concetto di humanitas, richiama all’importanza del ruolo di ogni educatore. Il termine latino humanitas, contiene in sé due termini greci: philanthropia (letteralmente “l’avere caro chi appartiene allo stesso gruppo sociale” e, in senso ampio, l’essere disponibili e aperti nei confronti degli altri uomini) e paidéia (l’educazione, ricordandoci che per i greci essa significava letteralmente “fare il ragazzo”).

 

Per i romani quindi l’educazione, l’istruzione e la cultura sono componenti fondamentali dell’humanitas: solo l’istruzione e la cultura possono insegnare a riconoscere il valore della dignità umana, solo l’educazione e la cultura possono formare il buon cittadino. E questo perché, direbbero i romani, vivere in una communitas non significa semplicemente avere qualcosa “in comune”, ma piuttosto l’avere munia, avere degli “obblighi” nei confronti degli altri; le già citate obbligazioni, i “doveri inderogabili” che per gli antichi costituivano il contraltare degli odierni diritti umani.

 

Come diceva Seneca: «Questo dobbiamo pensare: siamo nati nel vincolo di obblighi reciproci (in commune).

Troppe spesso, in questi giorni, queste parole mi assalgono, guardando immagini che mai avrei voluto vedere, o anche solo concepire per dire che in un mondo nel quale «tutto è connesso» è «la realtà stessa che geme e si ribella». Emergenza climatica, pandemia, guerre, povertà crescente: «Difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà» di «insostenibilità spirituale del nostro capitalismo», della necessità di «trasformare un’economia che uccide in un’economia della vita».«Non basta fare il maquillage, bisogna mettere in discussione il modello di sviluppo ».Questa economia uccide. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa.

Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”

 

La terra è stata «saccheggiata» e «neanche per il benessere di tutti, ma di un gruppetto». Si tratta di cambiare subito, oltre «il paradigma economico del Novecento che ha depredato le risorse naturali».

In un mondo che patisce anche una «carestia di felicità» parlare di economia «inclusiva», significa dire che «l’economia è una cosa aperta a tutti : il mondo sarà migliore se tutti possono godere dei beni economici, se il Pianeta non è solo uno strumento ma una casa comune da rispettare e curare».

 “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso; ciascuno è un pezzo del continente, una parte dell’oceano. Se una zolla di terra viene portata via dal mare, l’Europa ne è diminuita […]; la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché sono preso nell’umanità, e perciò non mandar mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te” (John Donne).

Credo per questo che sia importante costruire i nuovi ambiti a partire da quegli spazi di natura nei quali l’agricoltura non solo è viva, ma si rinnova. Nel riscoprire il Genius Loci, senza idolatrare le radici ed escludere lo straniero, dobbiamo tenere a mente che l’identità si costituisce nella diversità e l’ospitalità è più antica di ogni frontiera. Le campagne spopolate dell’Italia ben si prestano ad accogliere l’arrivo di migranti, per inserirli in un grande flusso demografico di ripopolamento delle aree interne e di valorizzazione dell’agricoltura. Succede già nelle campagne d’Emilia dove le produzioni di parmigiano reggiano sarebbero in crisi senza la presenza di indiani e pachistani. Nelle terre d’Italia, per secoli si è sviluppata un’agricoltura che ha reso ricche le nostre tante città ed ha consentito il fiorire dell’artigianato, della mercatura, dell’arte. Ancora oggi quelle terre potrebbero accogliere e proteggere in forme nuove, la straordinaria biodiversità agricola del nostro paese. Nell’attività del fare infine dovremmo riconoscerci come costruttori e assieme manutentori dei territori che abitiamo, dovremo avere come ci ricorda Massimo Venturi Ferriolo un comportamento etico.” Ethos, che in origine, aveva il significato di tana, stalla, luogo che l’uomo, in quanto costruttore, si era costruito per abitarvi.

In questa attività incessante nell’ethos, nel luogo dell’abitare, ciascuno ha la propria parte, e questo è il nomos, che per noi significa la legge, la norma, la consuetudine che è diventata legge, ma in origine, per gli antichi greci, era il pascolo, cioè la parte che veniva attribuita a ciascuno nell’ethos per la propria sopravvivenza. Vi è quindi un rapporto di partecipazione, nel significato proprio di avere parte, cioè ogni uomo partecipa del proprio luogo, ha una responsabilità verso esso, che è quella che chiameremo responsabilità etica. Quindi non c’è etica senza luogo, cioè l’etica nasce dal luogo e con il luogo.Nella XI edizione di Georgica si parlerà di ambiente e stili di vita sostenibili, di transizione ed indipendenza energetica, con particolare attenzione allo sviluppo delle energie rinnovabili valorizzando il ruolo chiave di un'agricoltura sostenibile che non comprometta l’equilibrio del paesaggio. Una riflessione sul recupero dei semi e delle varietà tradizionali, sul mondo contadino, sulla piccola agricoltura e il ritorno alla terra. Le varietà tradizionali sono eredità, patrimonio e memoria, così come lo sono le fotografie dei propri vecchi, i saperi di famiglia e la terra di casa ma non si conserva il patrimonio varietale se si dissolve il tessuto rurale che lo ha generato, conservato e fatto evolvere: non ha senso recuperare i semi se si estirpano i contadini.